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01/08/2024 - Il Sole 24 Ore
Un nuovo regionalismo che rischia di aumentare le diseguaglianze

La prima considerazione che la lettura della legge Calderoli sul regionalismo differenziato mi ha suggerito è d'ordine generale, direi storico. È che l'uscita dalla crisi pandemica poteva costituire una spinta verso la ripresa del percorso attuativo del federalismo fiscale segnato dal Titolo V della Costituzione e, di conseguenza, verso anche il rilancio dell'autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali. Si è scelta invece un'altra linea. Se si fosse voluto dare attuazione, seppur nei larghi tempi indicati dal Pnrr, al disegno di decentramento finanziario prefigurato dagli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, i temi di confronto delle forze politiche avrebbero dovuto essere gli stessi a suo tempo affrontati e definiti dalla legge delega n. 42 del 2009 e dai suoi decreti attuativi; legge e decreti - si badi bene - che sono tutt'ora vigenti, la cui applicazione è rimasta però sospesa e integrata da iniziative legislative di segno contrario. Questi temi sono quelli del rafforzamento dell'autonomia impositiva regionale e locale, della perequazione interregionale finanziaria, dello sviluppo del ruolo di coordinamento della finanza territoriale da parte di Stato e Regioni nei loro ambiti, della fiscalizzazione dei trasferimenti statali, del superamento per tutti gli enti territoriali della spesa storica e, naturalmente, dell'introduzione dei Livelli essenziali delle prestazioni e del finanziamento delle funzioni in relazione ai fabbisogni e ai costi standard. Dobbiamo prendere atto che l'attuale Governo ha invece preferito proporre parziali iniziative legislative riguardanti il solo regionalismo differenziato. Da qui il varo della legge n. 86, che ha avuto come primi effetti sia quello di confermare il rinvio a tempi indeterminati dell'attuazione del progetto perequativo, sia quello di smantellare progressivamente l'autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali sostituendola con la ripresa dei trasferimenti temporanei ed estranei a una logica perequativa di lungo termine. Sta di fatto che, nonostante l'esistenza della legge n. 42 e dei suoi decreti legislativi di attuazione e nonostante il pressante invito della Corte costituzionale a dare attuazione a tale legge, il quadro offerto dall'articolo 119 quanto alla perequazione non si è finora assestato. E dobbiamo anche prendere atto che ora, secondo la legge 86, i Lep dovranno essere definiti, ma fuori dal complessivo disegno perequativo indicato dall'articolo 119 e sviluppato dalla legge 42. Questa legge ha, infatti, il difetto di perseguire l'obiettivo di individuare i Lep, intendendoli, però, non come strumenti di prestazioni sostanziali perequative da garantire con carattere di generalità, ma come mere quote di partecipazione al gettito di tributi erariali maturato nel territorio nazionale. Mi spiego meglio. La semplice lettura della legge Calderoli fa emergere subito un problema di coerenza interna. Ci si accorge cioè che essa dimentica che, per garantire l'accantonamento nel fondo perequativo di cui all'articolo 119 delle risorse necessarie ad assicurare alle istituzioni dei «territori con minore capacità fiscale per abitante» i mezzi idonei a «finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite», occorre qualcosa di più della determinazione dei costi e dei fabbisogni standard in un limitato numero di settori. La nuova legge dimentica cioè che l'articolo 119 vuole, in via prioritaria, che la perequazione sia attuata ai sensi di tale articolo con riferimento a tutte le Regioni e che l'autonomia di bilancio di esse e degli enti locali deve essere garantita pienamente all'interno degli equilibri più complessivi del bilancio statale. In questa ottica, i Lep dovrebbero essere costruiti in stretta correlazione con la tutela dei diritti civili e sociali e non concepiti, come fa la nuova legge, solo come obiettivi a lungo termine delle politiche pubbliche regionali stabiliti dallo Stato. Essi non possono consistere, cioè, solo in misure di tipo organizzatorio, in target di offerta dei servizi regionali realizzabili in un futuro non determinato. La funzione costituzionale cui devono rispondere è quella di garantire subito una tutela uniforme e non parziale dei diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale. Si coglie bene questo passaggio se si volge lo sguardo soprattutto agli effetti economici e finanziari della legge Calderoli, i cui articoli 1 e 4 richiamano sì l'articolo 119, ma non istituiscono il - e comunque non presuppongono l'istituzione del - fondo perequativo da esso previsto e, soprattutto, non indicano il modo in cui le Regioni dovrebbero contribuire. Da questa degradazione dei Lep a meri indici tecnico-amministrativi è conseguita la loro spoliticizzazione. Sarebbe stato perciò necessario che, prima della attribuzione di nuovi specifici compiti e funzioni ad alcune Regioni con le corrispondenti risorse finanziarie, si fossero determinati tutti i Lep attinenti all'esercizio di diritti civili e sociali e, soprattutto, si fosse definito il loro finanziamento secondo i principi e le procedure dell'articolo 119. È evidente infatti che, essendo le risorse disponibili determinate dai vincoli di bilancio imposti dall'articolo 81 Cost., l'individuazione dei Lep in tal senso non può non richiedere anche una valutazione complessiva di quelli che il Paese è effettivamente in grado di finanziare; valutazione che non può essere fatta materia per materia. Date le condizioni della finanza pubblica, così facendo ci si ritroverebbe, alla fine, nella condizione di non poter finanziare i Lep necessari ad assicurare l'esercizio di diritti civili e sociali nelle materie lasciate per ultime. È perciò condivisibile la critica che sul piano istituzionale è stata mossa allo stesso meccanismo di individuazione dei Lep. Giustamente si è rilevato che i Lep dovrebbero essere individuati e valutati in modo integrale dal Parlamento e non rimessi esclusivamente a una sede tecnica sotto il controllo del ministro degli affari regionali. Hanno ragione coloro che sostengono che solo il Parlamento ha il potere di fare le scelte fondamentali sull'allocazione delle risorse pubbliche e di mediare tra le esigenze dei diversi territori e dei diversi contrastanti interessi. Può essere, infatti, interesse delle comunità più ricche e più autosufficienti del Paese minimizzare la soglia costituzionalmente necessaria dei Lep, in modo da non impegnare risorse pubbliche nei territori dove essi non possono essere raggiunti o, in alternativa, differire più lungamente nei tempi gli interventi di perequazione e coesione destinati a drenare risorse a favore delle altre Regioni. Essendo l'interesse delle comunità meno ricche l'opposto, è perciò evidente che le condizioni per un confronto politico e una mediazione su queste scelte si possono trovare solo in Parlamento. Non si dica, per superare questa osservazione, che la legge Calderoli prevede pur sempre che le intese con le Regioni passano attraverso il Parlamento con lo strumento del decreto legislativo di approvazione. Le nuove norme concentrano, infatti, il negoziato esclusivamente sui due esecutivi, centrale e locale, lasciando al Parlamento un intervento puramente formale con l'approvazione dell'intesa una volta conclusa. Per esso si tratterà, infatti, o di prendere o di lasciare senza la possibilità di emendare l'atto negoziato. Nonostante l'inserimento di questa disposizione, il vero assente continua a essere perciò il Parlamento, che si vede "scippata" di mano non solo la decisione sul tasso di socialità, ma anche la scelta di continuare a essere uno Stato unitario o di farsi disgregare dalle forze centrifughe. La caratteristica più evidente della legge n. 86 è, insomma, che la soluzione dei problemi è fatta "balenare", ma è rinviata a scelte politiche a venire. Ad esempio, in essa si parla vagamente di «compartecipazione» a uno o più tributi «erariali» come possibile fonte di finanziamento principale delle nuove spese devolute, ma non si tiene in alcun conto degli effetti distorsivi che derivano dall'attribuire competenze di spesa ad un ente territoriale, senza nello stesso tempo introdurre i necessari meccanismi di responsabilizzazione su queste spese, in termini di autonomia impositiva, di taglio «effettivo» di altre spese e di utilizzazione di nuove entrate. Il legislatore si è limitato, infatti, a disporre genericamente che, qualora dalla determinazione dei Lep derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, si potrà procedere al finanziamento delle funzioni (ma) solo «successivamente» all'entrata in vigore dei provvedimenti che stanzieranno le necessarie risorse con riferimento «all'intero territorio nazionale". Queste disposizioni significano che l'obiettivo del legislatore di ultima istanza è quello di realizzare un giorno la volontà di attribuire ai Lep quella funzione perequativa che è necessaria a garantire un uguale livello di trattamento a tutte le Regioni. Tutto ciò vale però solo come affermazione di una promessa o, meglio, di un principio proiettato nel futuro. Il che potrebbe avere delle conseguenze anche in termini di incostituzionalità. È stato, infatti, fatto notare che le norme richiamate potrebbero violare l'articolo 117, comma 2, lett. m) Cost. perché il legislatore si è limitato a promettere i Lep, ma non ha indicato gli strumenti necessari a finanziarli. Il contrasto con la Costituzione sarebbe nel fatto che l'articolo 117 eleva i Lep a diritti sociali meritevoli di essere soddisfatti ora e senza esitazioni, mentre la legge Calderoli li declassa a diritti a esecuzione futura e incerta, trasformandoli da diritti soggettivi ad aspettative di mero fatto. In conclusione, non si può non essere d'accordo con chi sostiene che il difetto di fondo della legge è quello di dettare una disciplina dei Lep provvisoria, senza che sia stato realmente predeterminato un quadro di riferimento generale che consenta, a fini perequativi, un adeguato bilanciamento tra le Regioni del Sud e quelle del Nord. Hanno perciò ragione coloro che ritengono che per realizzare effettivamente il regionalismo differenziato occorrerebbe, più che costruire discipline transitorie da completare in un futuro indeterminato, dare completa attuazione all'articolo 119 della Costituzione. L'impressione che si ha leggendo la legge Calderoli è insomma che, seguendo la strada da essa indicata, ci si allontani sempre più dal regionalismo cooperativo cui si è ispirato il titolo V della Costituzione e si vada, invece, verso un regionalismo competitivo avente una disciplina finanziaria incerta, tutta da riscrivere e soprattutto fomite di disuguaglianze. Hanno perciò ragione coloro che sostengono che, nonostante il richiamo inserito nel testo definitivo alla tutela dell'unità giuridica ed economica del Paese, il quadro dell'attuazione del federalismo regionale che si sta profilando va nella sostanza contro l'obiettivo costituzionale di un sistema ordinato e solidale di decentramento. Aggrava la situazione la circostanza che nelle materie non Lep, differentemente da quelle Lep, il trasferimento delle risorse potrebbe avvenire immediatamente con l'entrata in vigore della legge 86, senza essere subordinato alla previa individuazione dei livelli essenziali. Viene spontaneo porsi l'ulteriore domanda su come sia possibile finanziare le prestazioni non Lep erogabili immediatamente se prima non si ha un quadro chiaro di quali vincoli derivano al bilancio dello Stato tanto dal finanziamento dei Lep, quanto dal finanziamento delle misure non Lep e di perequazione. Non ci resta che attendere, al riguardo, qualche convincente risposta degli esperti governativi. Questa è un ulteriore ragione che dovrebbe - dovrei dire, avrebbe dovuto - spingere il Governo ad individuare modalità di attuazione dell'articolo 116 più conformi alla centralità del Parlamento che evitino la crescita di spinte separatiste e, comunque, il riprodursi di una sempre più forte dinamica competitiva. © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Franco Gallo